【In altre parole】Afghanistan: frontiera della nuova guerra fredda
Fin dagli anni Settanta l’Afghanistan e le regioni pakistane ad esso confinanti sono state laboratorio per il jihadismo internazionale. I processi di radicalizzazione e le reti di mercenari ad essi legati hanno goduto, dagli anni Ottanta in poi, di risorse e assistenza attraverso una fitta rete di interferenze straniere, ove gli apparati di intelligence di Arabia Saudita, Pakistan, Usa e UK hanno svolto un ruolo centrale. Perché è avvenuto ciò? Il tutto è avvenuto nell’ambito di strategie regionali di diffusione del Wahabismo e strategie internazionali di strumentalizzazione di fazioni fanatiche e fondamentaliste al fine di colpire dapprima l’Unione Sovietica e in un secondo momento la Cina, la cui regione autonoma dello Xinjiang Uygur confina con l’Afghanistan nei pressi del corridoio di Wakhan.
Il disastro umanitario lasciato in eredità dalla coalizione NATO a guida Usa negli ultimi venti anni non si limita dunque alla uccisione di decine di migliaia di civili, senza peraltro aver contribuito ad alcun tipo di reale sviluppo materiale del paese, ma si estende nel tempo alle responsabilità dirette avute da UK e Usa in primis nel fomentare e finanziare le “nuove forme” di terrorismo islamista, di volta in volta utilizzate per destabilizzare e sovvertire governi in tutto l’arco mediorientale e financo nel Nord Africa. L’Afghanistan, peraltro, è stato così diviso e sfruttato per reclutare ed addestrare gruppi di minoranze, come gli Uiguri, che potessero colpire efficacemente, con migliaia di attacchi, la stessa Repubblica popolare cinese in Xinjiang. Negli ultimi anni, secondo Wilkerson, l’Afghanistan, ha svolto la funzione che aveva avuto la Germania nella prima guerra fredda, rappresentando il fronte caldo da cui gli Usa possono portare avanti la loro crociata contro la Cina. Già Mattis nel 2018 aveva esplicitato pubblicamente che il vero nemico, la più grande preoccupazione degli Usa, non era rappresentato dal terrorismo islamico (che infatti è stato ed è strumento di dominio al soldo dell’imperialismo), ma Cina e Russia. A distanza di qualche anno, ciò è confermato dall’ultimo discorso del presidente Biden.
Seppure sotto molti punti di vista, il ritiro delle truppe, concordato con gli stessi talebani, è stato gestito in modo fallimentare e caotico, il lascito statunitense replica l’esito dei suoi interventi in maniera storicamente costante. Ottenendo, paradossalmente, ciò di cui ha bisogno ed avrà bisogno per continuare a giustificare, sotto mentite spoglie, la propria interferenza anche nel prossimo futuro, con apparati di intelligence e contractor privati, che non lasceranno l’Afghanistan per le ragioni sopra menzionate. Gli appelli di Biden a vendicarsi contro l’Isis in Afghanistan (vedi ultimo attacco Usa con drone che ha ucciso diversi civili, ancora una volta, tra cui bambini), le dichiarazioni di politici occidentali sulle nuove minacce di possibili attentati in Europa e America (si veda l’alleanza anti-Daesh) non fanno altro che riportarci al clima dei primi anni 2000, quando si doveva inaugurare la guerra senza fine al terrorismo. La realtà è che gli obiettivi ufficialmente dichiarati dall’Occidente non sono mai stati quelli reali, essi sono serviti a coprire interessi e strategie di dominio sempre più incentrate a isolare l’Iran (guardare sulla cartina Afghanistan, Iraq e Siria) e contenere l’ascesa cinese. Per questo oggi, gli Usa continueranno a soffiare sulla destabilizzazione dell’Afghanistan ed a perseguire obiettivi strategici regionali ed internazionali in sprezzo di qualsiasi reale bisogno e diritto umano. Per questo, per quanto triste sia, non c’è da sorprendersi delle notizie che confermano il coinvolgimento di soldati americani nella uccisione di civili all’aeroporto di Kabul durante le recenti deflagrazioni lì avvenute. Per questi motivi, quindi, i “nuovi” talebani e le altre potenze regionali non potranno che trovare nella Cina l’attore internazionale più affidabile, rispetto alla progressiva evaporazione della leadership statunitense nei regimi economico-politici mondiali.